Negli ultimi mesi, Duolingo è finita al centro di un acceso dibattito sull’adozione dell’intelligenza artificiale all’interno della propria piattaforma di apprendimento linguistico. La svolta verso un modello “AI-first”, annunciata in primavera dal CEO Luis von Ahn, ha scatenato una serie di polemiche sia da parte degli utenti che degli osservatori del mondo tech e dell’istruzione digitale. A preoccupare maggiormente era la prospettiva, apertamente dichiarata, di ridurre il numero di collaboratori umani in favore di sistemi automatizzati, con l’intenzione di trasformare l’AI da semplice supporto a vera e propria colonna portante del progetto Duolingo.
La situazione si è rapidamente infiammata dopo un episodio chiave nel podcast No Priors, dove von Ahn ha dipinto un futuro in cui l’insegnamento sarebbe quasi interamente affidato alla tecnologia, con gli insegnanti ridotti a supervisori. Il messaggio, recepito come una svalutazione del ruolo umano, ha ricevuto una valanga di commenti negativi, culminati in un post su Instagram aziendale letteralmente travolto dall’ironia del pubblico. Uno dei commenti più votati, “Sarà pure all’antica, ma preferiamo che siano persone a insegnarci“, riassume perfettamente il malcontento generale.
L’eco di questa insoddisfazione ha spinto Duolingo a riconsiderare le proprie posizioni. Von Ahn è intervenuto su LinkedIn per chiarire che l’AI verrà utilizzata per ottimizzare processi e migliorare i contenuti, non per eliminare posti di lavoro. Un cambio di tono evidente rispetto alle dichiarazioni precedenti, e che lascia intuire quanto il dissenso degli utenti possa incidere sulle scelte strategiche anche di una big tech educativa.

Il caso Duolingo come riflessione collettiva sull’uso dell’AI nel lavoro
Quella di Duolingo non è un’eccezione isolata, ma parte di un fenomeno più ampio, dove l’entusiasmo iniziale per l’intelligenza artificiale sta incontrando la realtà delle sue implicazioni sociali e lavorative. Se da una parte le potenzialità dell’AI sono indiscutibili, in quanto favoriscono segmenti lavorativi importanti come la personalizzazione dell’apprendimento o la velocizzazione dei contenuti, dall’altra emerge un’urgenza crescente di trovare un equilibrio tra automazione e presenza umana.
Klarna, colosso svedese dei pagamenti digitali, ha offerto un esempio simile ma inverso, provato sul campo con risultati discutibili. Dopo aver affidato parte del servizio clienti a chatbot, ha dovuto fare marcia indietro, riassumendo personale umano a seguito delle numerose lamentele ricevute. Certo, l’azienda non ha tolto completamente l’intelligenza artificiale dai suoi sistemi, come lo dimostra l’uso di un avatar AI da parte del CEO, ma è stata una dimostrazione di come l’AI, pur efficiente, non sempre riesce a replicare l’empatia e l’intuizione di un operatore in carne e ossa , due qualità fondamentali nel contatto con gli utenti.
Queste dinamiche aprono interrogativi cruciali non solo sul presente, ma soprattutto sul futuro del lavoro e dell’educazione. L’AI sarà un sostegno o un sostituto? Le aziende sembrano dover fare i conti con il fatto che la risposta a questa domanda non può prescindere dalla percezione delle persone che utilizzano quei servizi. E per ora, il messaggio che si percepisce è quello di integrare volentieri l’intelligenza artificiale per velocizzare, migliorare e ottimizzare le operazioni, ma non a scapito dell’umano.
