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True Detective 3: l’intimo ritorno alle origini e la rivincita di Pizzolatto [No Spoiler]

Il mondo si divide in due tipi di persone. Chi ha visto la prima stagione di True Detective e ha iniziato un culto dedicato a Nic Pizzolatto (che ha ideato e scritto la serie) e quelli che, purtroppo, sono nati ciechi. Poi è arrivata la seconda stagione, che ha fondamentalmente sofferto l’impietoso confronto con la prima e una sceneggiatura troppo arzigogolata: in poco tempo è stata bollata come “lammerda”. Tristemente affrettato, anche se comprensibile. Le aspettative per True Detective 3 erano quindi fuori scala, nel senso che poteva risollevare la baracca o darci fuoco e ballare sulle sue ceneri.

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Signori, Pizzolatto è tornato, facendo solcare la sua penna fra le nostre menti e regalandoci un gioiello come True Detective 3.

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Tre linee temporali, due bambini scomparsi e un Mahershala Ali mastodontico. A True Detective 3 non serve altro per catturarci, avviluppandoci dentro una cittadina americana spenta e morente, dove tutti potrebbero finire in televisione perché “erano così bravi, salutavano sempre”. Pizzolatto riprende il mood della prima stagione, ci inserisce dentro il suo universo utilizzando stilemi già conosciuti (all’inizio pure un po’ troppo). Perché sembra che il caro Nic voglia ribadire quello che ha funzionato nella prima stagione, come se questo ritorno alle origini servisse più a lui che a noi, segnando coordinate già percorse dove tutto era andato bene.

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Poi, però, succede. In sordina, come quando stai dormendo con la finestra aperta, è primavera e senti una leggera brezza che ti sfiora. Sai che c’è, ma non te ne accorgi davvero. True Detective 3 diventa splendidamente intimista. Il focus resta lo stesso, dissociandosi consapevolmente dall’indagine di un presunto rapimento alla frammentazione di un matrimonio, al costruire un rapporto di coppia che diventa più tortuoso e contorto di un caso che si srotola fra 1980, 1990 e 2015.

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Ogni tassello, ogni ricordo sfocato che il Wayne “Purple” Hays di Mahershala Ali cerca di incasellare è importante, come una scatolina nascosta nei meandri bui di un armadio. True Detective 3 frammenta noi e il suo protagonista, spezzettandolo in un caso gargantuesco eppure così piccolo, dividendolo tra una moglie amata e odiata (una Carmen Ejogo a tratti illegale), detective anche lei, forse più del marito e… esplodendo con il suo partner. La controparte di Hays, Roland West (Stephen Dorff in stato di grazia), si insinua lenta, in maniera brusca ma, alla fine, dolcemente inevitabile. Il rapporto tra i due supera, forse, quello tra Marty e Rust della prima stagione: molto più burrascoso, molto più intimo, molto più… umano. Perché nel momento di quell’incontro (chi ha visto, sa) noi siamo lì con gli occhi umidi, e vorremmo soltanto abbracciare quella coppia di detective spezzata dalla vita, ma ancora capace di lottare.

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E Nic Pizzolatto? Sorride in sottofondo, lanciandoci esche qua e là senza mai tirare veramente il filo, non fino alla fine. Siamo tutti convinti di una cosa, pronti a speculare su ogni elemento come se fosse il turning point del caso e, invece, era tutto così semplice. Pizzolatto ci frega, facendoci saltare urlanti dal divano nella settima puntata, quando (senza fare spoiler) QUEL MOMENTO (sapete di cosa si parla) ci fa esplodere il cervello lanciando coriandoli di congetture per tutta la stanza. E noi a bere tutto, ubriachi di True Detective 3, mentre il mago Nic sfrutta la regola aurea dei prestigiatori (almeno secondo How I Met Your Mother): “il miglior trucco per un illusionista è un pubblico ubriaco”. E la nausea non arriva mai.

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Ecco perché i rapporti tra i personaggi sono così importanti: spostano la nostra attenzione catturandola comunque, perché forse vedere Wayne e sua moglie Amelia che si sorridono è tutto ciò di cui avevamo bisogno. Ma Pizzolatto soddisfa anche la nostra curiosità più morbosa, svelandoci il caso, tirando fuori un coniglio che tutti pensavamo fosse variopinto e, invece, è giustamente bianco.

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True Detective 3 si chiude come doveva, con quel sorriso dolceamaro del “va bene così”, come il gesto di Mastroianni alla fine de La dolce vita. Nella prima stagione il tempo era un cerchio piatto, dal quale non si poteva scappare. Pizzolatto riprende quel concetto ma ci insegna che, ogni tanto, nelle nostre gabbie, qualche piccola porticina si può anche aprire.

Voto: 8.5

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Edoardo Ferrarese

Edoardo Ferrarese

Nato a Novi Lugubre l’11/11/92, anche se nessuno lo ha interpellato sulla questione. Laureato in Lettere Moderne senza infamia e, soprattutto, senza lode, capisce che magari gli piace la critica cinematografica e il Cinema tutto, anche se troppo tardi, e che vuole scriverne, perciò prende pure un diploma alla Scuola Holden (tanto per non continuare a sembrare un radical chic di merda). Finirà per insegnare letteratura italiana nel liceo del suo diploma, però questo non ricordateglielo mai.

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