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“Game as a Service”, la strategia vincente: il rapporto tra Giocatore e Publisher

Il “Game as a Service”, una strategia vincente nel regolare il rapporto tra publisher e giocatore

Lucca Comics & Games 2018, uno degli eventi dedicati al panorama ludico e fumettistico più attesi e popolari in Italia, si è ormai concluso da oltre una settimana. Quest’anno, gli organizzatori hanno espresso l’intento di rendere protagonista il Videogioco, come sottolineato nei vari comunicati. Esso è infatti un medium in continua espansione, e che per definizione è immanente alla categoria generale di “gioco”. Pertanto, non era più possibile ignorarlo, o trattarlo solo marginalmente, come è stato fatto nelle edizioni passate. A questo scopo, un’intera area all’interno delle mura, denominata “The Bit District”, è stata dedicata al videogioco, e numerosi spazi sono stati resi disponibili per eventi e conferenze sui temi che attraversano questo complesso fenomeno, a partire proprio dal “Game as a Service”. La strada è ancora lunga, e questo è solamente l’inizio.

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DrCommodore Gaming ha presenziato a uno di questi incontri, e in questo articolo vorremmo riportarvi e sviluppare ulteriormente la stimolante riflessione che esso ha enucleato. Parliamo quindi, come recitava il titolo stesso della conferenza, del “Rapporto tra Player e Publisher” nell’industria videoludica.

Il relatore

Prima di iniziare, ci sembra doveroso presentare il relatore della conferenza, personaggio sicuramente di spicco nel panorama mondiale del Videogioco. Stiamo parlando di Ilja Rotelli, game designer triestino ora residente negli Stati Uniti, a Seattle, per motivi di lavoro. La sua carriera parla da sola: nel 2003 entra a far parte dello staff di Wizards of the Coast, compagnia creatrice di Magic: The Gathering e Dungeons & Dragons, in qualità di Director of Programs and Operations; nel 2007, diventa Director of Online Media nella stessa azienda. Nel 2010, è Director of Account Strategy presso Roundhouse, agenzia creativa responsabile delle strategie web di Microsoft ai tempi di Xbox 360.

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Ilja Rotelli, ormai ospite assiduo di Lucca Comics&Games

Dal 2011 al 2015, lavora prima presso Blizzard Entertainment in qualità di Director, Global Community and eSports, poi presso Riot Games come Director of Community. Infine, da allora fino ad oggi, opera presso Amazon.com in qualità di Head of Community & Esports. Insomma, possiamo tranquillamente dire che Ilja Rotelli abbia avuto modo di analizzare da molti punti di vista il mondo dei videogiochi, e che abbia avuto un ruolo importante nel suo sviluppo degli ultimi due decenni.

Il “motore a GaaS” come propulsione del mercato futuro

Una voce così autorevole non poteva non suscitare una riflessione interessante su un tema che è da sempre fondamentale nello sviluppo dell’industria videoludica. Il rapporto che lega il giocatore, allo stesso tempo consumatore e fruitore dell’opera, e il publisher, soggetto imprescindibile per il funzionamento del sistema, è certamente di centrale interesse. Ovviamente, ogni publisher decide autonomamente come gestire questo rapporto: in che misura rivolgersi al giocatore; se, quando e come consultarlo; quanto tenere in considerazione le sue esigenze. Rotelli ha proposto la visione strategica peculiare dei publisher presso cui ha lavorato, ma che si profila come uno degli approcci più promettenti dell’industria. Basti guardare al successo di aziende come Blizzard o Riot, che sebbene all’apparenza siano molto diverse, in realtà adottano strategie alquanto simili.

Questo particolare modo di gestire il rapporto è stato definito dal relatore, non senza una punta di ironia, “motore a GaaS. L’acronimo GaaS sta per “Game as a Service”. Questo slogan serve proprio a designare il modo in cui molti publisher intendono il videogioco. L’idea che sta alla base di questa visione è che il videogioco non conclude il suo sviluppo al momento della pubblicazione; al contrario, il lancio sul mercato segna una nuova fase evolutiva del prodotto videoludico, che continua così ad espandersi e a trasformarsi anche nel periodo successivo. La pubblicazione costante di nuovi contenuti genera nuove esperienze per i giocatori (nonché entrate economiche per il publisher), i quali si legano al videogioco e continuano a supportarne l’arco evolutivo. Il GaaS diventa così una fonte di propulsione per il mercato videoludico, che continua a dispiegarsi senza sosta e senza la necessità impellente che vengano pubblicati giochi interamente nuovi.

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Pregi e difetti della formula “Game as a Service”

Certamente, questa operazione può drasticamente allungare la “vita” di un videogioco, ma non può certo, a nostro parere, renderlo immortale. Il mercato continuerà ad avere bisogno di nuovi input, che non si concretino solamente in espansioni e contenuti aggiuntivi, ma anche in prodotti innovativi e dotati di autonomia. Il rischio di una situazione opposta a questa è la stagnazione del mercato, che finirebbe per concentrarsi su determinati titoli, perdendo la capacità di attirare nuovi giocatori e di proporre esperienze varie.

Ciò non toglie che il GaaS rimanga uno degli approcci vincenti nell’industria, essendo in grado di creare una molteplicità di esperienze diversificate di grande impatto. Lo stesso Rotelli ha ammesso che Blizzard Entertainment, publisher di videogiochi tra loro anche molto diversi (Hearthstone, World of Warcraft, Starcraft sono solo alcuni esempi) è riuscita ad avere successo in tutti i generi che ha toccato proprio grazie alla formula del Game as a Service. Una formula che esercita peraltro una crescente attrattiva, anche nei confronti di quei publisher che se ne sono sempre tenuti discosti. Ad esempio Bethesda, che con Fallout 76 vuole creare un prodotto in parte diverso dai suoi predecessori, che non si esaurisca in sé stesso e alcune eventuali espansioni, ma che sia suscettibile di continuo aggiornamento e sviluppo.

Ma quali sono gli elementi che caratterizzano e compongono il Game as a Service? Ilja ne ha evidenziati alcuni, riconoscendo a ciascuno di essi eguale importanza.

Istituire una cultura del videogioco

Punto di partenza irrinunciabile per creare un videogioco che sappia durare nel tempo è sicuramente la costruzione di una propria cultura. Facile a dirsi, ma non altrettanto a farsi, istituire una cultura del videogioco significa innanzitutto dare a quel prodotto un’”anima”, ovvero una serie di caratteristiche che lo rendano unico ed immediatamente riconoscibile dall’utenza. Per riuscirci, molto utile risulta la costruzione di una simbologia peculiare, che si realizza non solo nel logo che caratterizza il videogioco, ma in tutta l’iconografia che lo riguarda. Anche il contesto narrativo è importante, nonché il design dei personaggi. Intuibilmente, il game design gioca un ruolo essenziale in questo primo step. Rotelli ha inoltre affermato che un publisher che voglia riuscire in questo deve assumere degli sviluppatori che siano al contempo giocatori; non si può comprendere il fenomeno videoludico a fondo senza esservi immersi.

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La serie Fallout è un esempio lampante di tutto ciò: se dico “Nuka Cola”, praticamente chiunque abbia sentito parlare del titolo, pur non avendolo giocato, riconoscerà questo nome. Gli stessi titoli Blizzard condividono spesso un sottotesto culturale consolidato; Hearthstone lo condivide con World of Warcraft, mentre Heroes of the Storm raccoglie elementi da tutti gli altri titoli. Potremmo fare innumerevoli esempi, ma siamo sicuri che sarebbero superflui: tutti possono intuire l’importanza del creare una cultura del videogioco.

Partire dal giocatore

Possiamo dire che molti titoli che hanno segnato la storia dell’industria sono riusciti a costruire una propria cultura, ma non che tutti hanno adottato la filosofia del Game as a Service. Un aspetto inderogabile di questa strategia è mettere al centro dell’attenzione il giocatore. Il player non deve essere visto solo come il soggetto passivo del processo di pubblicazione del prodotto; al contrario, il publisher deve tenerne conto come parte integrante del processo creativo, che si deve modellare anche sulle sue esigenze. Il giocatore deve essere informato sulle caratteristiche del “servizio” che va appunto a ricevere dall’azienda produttrice. In quest’ottica, il comunicato stampa è uno strumento utilissimo, poiché fornisce una prospettiva significativa a chi riceverà il gioco.

Anche forse per questa ragione le riviste e i giornali che trattano il tema videoludico esercitano ancora un ascendente così forte sul pubblico. Anche la stampa videoludica è un fenomeno di community, ed ha un grande valore, anche professionistico, come dimostrano i dati relativi agli incassi dei prodotti in relazione alla critica specializzata. Questo fenomeno si verifica meno in ambito cinematografico, ad esempio.

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Aprire il dialogo

Proprio perché è importante tenere in considerazione il giocatore e i suoi bisogni, è anche centrale ascoltarlo e dialogare con lui per comprenderli. Tuttavia, il dialogo deve essere più libero da interferenze possibile. Il game designer, lo sviluppatore, deve potersi confrontare direttamente con l’utente, senza la mediazione di PR che possono contaminare un rapporto lineare dato dal confronto scevro da interpolazioni. A questo scopo, lo sviluppatore può partecipare a forum dedicati o altre piattaforme dove sono presenti canali di dialogo specifici.

Certo, carpire i bisogni della community può essere impresa non facile. I gusti e le esigenze dei giocatori possono essere estremamente variegati; come fare dunque ad orientarsi in questa selva di opinioni, spesso contrastanti? Pensiamo al team di sviluppo di League of Legends: quando deve ritenere opportuno potenziare o depotenziare un determinato eroe? La risposta risiede in una procedura ben precisa. Il publisher riceve innanzitutto i feedback della community attraverso il dialogo diretto, dopodiché procede a raccogliere le opinioni degli utenti che normalmente non interagiscono attraverso delle survey, e infine confronta i risultati con i dati statistici del proprio gioco. Ogni publisher decide che peso dare a ciascuno di questi elementi, e arriverà a soluzioni più o meno condivise. Ciò che è importante è la centralità del player, soggetto attivo del medium videoludico.

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Disegnare per l’esperienza totale

Quando un titolo è in possesso di queste caratteristiche, è indubbio che intorno ad esso si costituirà, o si è già costituita, una comunità di giocatori. Essa è una sorta di super-organismo rispetto al player; dentro di essa, il giocatore conserva la sua individualità, ma le sue interazioni contribuiscono alla definizione dell’intero gruppo sociale. Le interazioni endogene, ovvero quelle tra gli utenti, e quelle esogene, che coinvolgono i media, concorrono inevitabilmente a generare un ecosistema. Per ecosistema intendiamo una serie di meccanismi ed attività che, se prese nel complesso, realizzano un equilibrio all’interno della comunità. Un equilibrio tuttavia non statico, bensì dinamico, in quanto il videogioco si evolve, e dunque muta, ma rimane sempre fedele a sé stesso permettendo ad ogni attività lecita di trovare il suo posto.

Il giocatore, in quanto membro della community, deve essere visto dal publisher come una vera e propria “risorsa umana”. Tutti gli aspetti della community vanno valorizzati, se l’obiettivo è garantire il funzionamento dell’ecosistema. Ma, cosa più importante, il publisher deve in prima persona partecipare ad esso, passando da orchestratore esterno ad agente interno della comunità legata al proprio prodotto.

Rimanere al di sopra dell’ecosistema ha portato nella pratica spesso a risultati indesiderati, e grandi publisher ne hanno fatto esperienza diretta. Può testimoniarlo Blizzard, ad esempio con la questione del gold farming su World of Warcraft. In un primo momento, il publisher non se ne è interessato, ritenendolo un fenomeno marginale e innocuo; con il passare del tempo Blizzard si è resa conto della portata del gold farming, che aveva creato un’economia reale basata sulla valuta virtuale del gioco.

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Eclatante poi è l’episodio di quella che è considerata “la nascita degli eSports”. Quando in Korea un canale televisivo cominciò innocentemente a trasmettere partite di Starcraft, nessuno, tantomeno Blizzard, avrebbe creduto che ciò avrebbe assunto una valenza planetaria. Il pubblico interessato alle trasmissioni crebbe a dismisura, e quando Blizzard se ne rese conto era tardi; per risolvere la questione a proprio favore, furono necessarie lunghe contrattazioni (nelle quali giocò un ruolo importante lo stesso Rotelli).

Celebrare gli eroi della community

Infine, un ultimo tassello per la strategia Game as a service riguarda i cosiddetti “eroi della community”. Allo stato attuale, sono ormai innumerevoli i soggetti che, passando da una posizione passiva ad una attiva, sono diventati popolari per vari motivi nelle community. Alcuni di questi giocatori si sono letteralmente inventati nuove arti e professioni: youtuber, caster (commentatori di partite), cosplayer sono solamente alcuni esempi. Anche i cosiddetti “top player”, che competono a livello professionistico negli eSports, sono diventati personaggi di spicco, talora idoli per le nuove generazioni. Il publisher può, anzi deve creare dei programmi che coinvolgano questi “eroi” e li esaltino; questo permette di amplificare la risonanza del videogioco e istituirne più efficacemente il sottotesto culturale di cui sopra.

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A proposito di eSports, Rotelli ha espresso la propria opinione, controcorrente rispetto al trend della maggioranza dei publisher. Le compagnie che hanno a che fare con titoli che possiedono un proprio circuito di eSports tendono infatti a puntare tutto su tornei internazionali, manifestando poco interesse per la realtà nazionale. Così facendo, i riflettori sono puntati sui top player; il giocatore medio, per quanto capace, si sente lontano da quella realtà, e quindi scoraggiato a tentare di perseguire quella strada. Al contrario, programmi di eSports strutturati su più livelli, sia per territorio che per livello agonistico, permetterebbero la diffusione del fenomeno su larga scala.

C’è spazio per il GaaS nei titoli single-player?

Se avete letto con attenzione, nell’articolo (così come nella conferenza) si è fatto cenno solamente a titoli che hanno una forte componente multigiocatore. La domanda sorge spontanea: il Game as a Service è una strategia attuabile anche nei titoli single player? Sorprendentemente, nel rispondere Rotelli non si è dimostrato pessimista. Certo, ha subito ammesso che nei videogiochi multiplayer è più facile realizzare la “formula aurea”, in quanto gli altri giocatori sono essi stessi, in primis, un contenuto per il player.

Nondimeno, non è detto che quello visto sino ad ora sia l’unico modo per proporre il GaaS. Assodato che i giochi single player stanno tutt’altro che morendo, sarà importante per i publisher di questi titoli trovare modi per rinnovarsi. Prendere spunto dai risultati vincenti del Game as a Service sembra quasi un passaggio obbligato. Peraltro, seguire un percorso di questo tipo potrebbe ben sposarsi con il nostro ipotizzato “ultraplayer, di cui abbiamo parlato in un editoriale.

In conclusione… o forse no?

Tra passato, presente e futuro, il Game as a Service è certamente una delle componenti strategiche più rilevanti dell’industria videoludica odierna. Il modo con cui esso ha configurato il rapporto tra player e publisher ha trovato un riscontro incalcolabile, e ha segnato per sempre la storia del medium videoludico. Non resta dunque che osservare come tutto questo si svilupperà in futuro, e quali implicazioni innovative porterà alla Decima Arte.

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