Nel labile confine tra umano e artificiale, la musica sta vivendo una trasformazione silenziosa ma radicale. Il caso di The Velvet Sundown è emblematico di questa nuova fase, un gruppo musicale dall’estetica indie rock che dietro l’apparente autenticità cela una genesi completamente sintetica. Con oltre 500.000 ascoltatori mensili su Spotify e due album all’attivo, Floating on Echoes e Dust and Silence, il progetto ha guadagnato un seguito notevole in tempi record. Eppure, qualcosa non quadra. Le sonorità, seppur simili a quelle delle band umane, tradiscono una certa ripetitività strutturale, come se dietro le chitarre e i testi malinconici ci fosse un generatore automatico più che una mente creativa.
I primi dubbi sui The Velvet Sundown sono emersi su Reddit, dove diversi utenti hanno messo in discussione l’autenticità della band. Tra fotografie sospette sui social, citazioni false attribuite a Billboard e una totale assenza di riferimenti credibili ai presunti membri della band, la narrazione è apparsa da subito traballante. L’account Instagram aperto il 27 giugno 2025 è stato la prova decisiva per molti, mostrando immagini altamente simmetriche, dettagli assurdi e il caratteristico filtro seppia delle immagini autogenerate che mette in mostra una composizione visiva chiaramente artificiale, tutti fattori che hanno rafforzato la tesi di un prodotto interamente generato da intelligenza artificiale.

Il boom della “AI slop music” e la questione della trasparenza nel caso della band The Velvet Sundown
Il fenomeno dei The Velvet Sundown non è isolato, ma si inserisce nella tendenza più ampia della cosiddetta “AI slop music”, un termine sempre più diffuso per definire la massa crescente di brani musicali generati da modelli come Suno e Udio. Solo su Deezer, oltre 20.000 brani di questo tipo vengono caricati ogni giorno. Ad aprile 2025 rappresentavano già il 18% del totale sulla piattaforma, segno di una penetrazione impressionante nel mercato digitale. Nonostante la portata del fenomeno, la maggior parte dei colossi dello streaming, da Apple Music a Spotify, passando per Amazon Music, non impone alcuna etichetta o indicazione sull’origine dei brani.
L’unica eccezione degna di nota è proprio Deezer, che ha introdotto una segnalazione chiara per identificare i brani generati dall’intelligenza artificiale. Sulla pagina di The Velvet Sundown, ad esempio, compare l’avviso: “alcuni dei brani potrebbero essere generati tramite IA”. Un segno di trasparenza che manca altrove. Un altro caso è The Devil Inside, band totalmente artificiale il cui singolo “Bones in the River” ha superato 1,6 milioni di ascolti. Anche qui, solo Deezer attribuisce correttamente la paternità delle opere al musicista ungherese László Tamási.
Nel frattempo, il dibattito sull’autenticità e sul valore dell’arte prodotta dall’IA si fa sempre più acceso. Se da un lato queste tecnologie offrono possibilità inedite, dall’altro pongono interrogativi etici profondi. Molti sostengono che un brano generato da algoritmi, per quanto piacevole, non possa possedere lo stesso peso emotivo di una composizione nata dall’esperienza umana. E mentre le etichette discografiche iniziano a muoversi legalmente per tutelare il diritto d’autore, piattaforme come Suno e Udio si trincerano dietro il principio dell’ “uso legittimo”, sostenendo che l’addestramento tramite opere musicali non sia poi così diverso dall’ascolto umano.
Alla fine ciò che resta è una questione aperta in un panorama dove l’intelligenza artificiale può mimare qualsiasi stile, riconoscere ciò che nasce da vera ispirazione e ciò che è un rimpasto digitale diventa sempre più difficile E con essa, anche il modo di percepire la musica rischia di cambiare radicalmente.
