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Great Pretender – La recensione

WIT Studio è indubbiamente uno degli studi d’animazione più quotati degli ultimi anni. L’ampio successo di critica e pubblico riscosso da Shingeki no Kyojin ha aperto le porte ad un riconoscimento progressivamente alimentato dall’uscita di diversi titoli, anch’essi piuttosto apprezzati. Oggi, nonostante qualche retroscena poco felice,  lo studio presenta su Netflix la sua prima serie originale: Great Pretender, una storia all’insegna della truffa e dell’inganno.

La trama

Nel Giappone contemporaneo, Makoto Edamura vive alla giornata inscenando imbrogli piuttosto classici che tuttavia lo fanno sentire un mago della truffa. Dopo uno dei suoi soliti lavoretti, il piccolo appartamento in cui vive viene circondato da un gruppo di poliziotti e viene costretto alla fuga.

the great pretender

Ritrovatosi su un taxi condiviso da un turista truffaldino già conosciuto poche ore prima, decide di recarsi a Los Angeles per lasciare che le acque si calmino prima di un suo ritorno. Arrivato nella città americana, tuttavia, scopre di essere finito in qualcosa di molto più grande di lui.

Una… metatruffa

All’inizio della serie, le carte sembrano posizionate in maniera piuttosto chiara. Facciamo la conoscenza dei vari personaggi (il francese Laurent, la sua assistente Abby e le vittime della truffa), scopriamo il piano che caratterizza questo primo arco e osserviamo con calma la sua evoluzione, sicuri di ciò che stiamo vedendo. Man mano che la narrazione procede, però, ogni sicurezza inizia lentamente a sgretolarsi.

La prima riguarda Makoto, truffatore senza scrupoli che nasconde tuttavia un passato travagliato capace di definire la sua identità più di quanto lui stesso sia consapevole; più passano le puntate, più ci si rende conto di come la nomea di “più grande truffatore del Giappone” sia solo una facciata con cui ha deciso di rispondere alla diffidenza delle persone. La vita l’avrà pure portato ad indurire il suo cuore e ad ingannare le vecchiette in cambio di soldi facili, ma il desiderio di fare del bene è sempre rimasto intatto.

Dietro agli schemi complessi delle singole truffe presentate, la scrittura nasconde in verità l’obiettivo di parlare dei singoli personaggi in maniera ampia e approfondita; in ogni arco, la narrazione procede così su due piani paralleli che lentamente intersecano le vicende personali a quelle del gruppo, creando un mix di toni decisamente ben orchestrato.

L’intrattenimento esplosivo che sembra caratterizzare le battute iniziali della serie viene quindi coperto da un approfondimento tematico molto interessante, che tuttavia non sovrasta l’azione ed anzi le permette di risultare un valore aggiunto. Così come i personaggi truffano i malcapitati di turno, anche la sceneggiatura procede astutamente ad ingannare lo spettatore.

Un imbroglio agrodolce

Elemento più interessante di questa truffa “metatestuale” è il modo in cui riesce a coinvolgere le emozioni dello spettatore in un saliscendi elaborato e coinvolgente; gli inganni dei protagonisti sono palesemente finti e al limite della credibilità, ma il loro vissuto è invece perfettamente contestualizzato e condivisibile.

Malgrado il contesto in cui si muovono appaia alle volte piuttosto vago, le loro vicissitudini sono tanto credibili da poter appartenere a chiunque abbia vissuto nelle stesse condizioni. Si parla di Iraq, di sogni mai realizzati, di figure paterne che condizionano il futuro dei figli; argomenti che trovano un approfondimento ideale e aggiungono personalità ad una serie che probabilmente si sarebbe retta in piedi anche senza.

La regia di Hiro Kaburagi, inoltre, si dimostra molto attenta nell’affrontare le singole scene con un approccio che si adatti per bene alle diverse necessità; ogni approccio è calcolato in maniera tale da evitare di essere eccessivamente leggeri o eccessivamente pesanti, così da restituire una freschezza capace di far emergere la serie in un panorama veramente pieno di produzioni.

Che piaccia o meno, Great Pretender ha un’identità tanto forte da permettergli di ritagliare un suo spazio senza ricorrere ad alcun tipo di mezzucci. E per quanto ci si possa passare sopra, questo è un valore fondamentale per comprendere la qualità di un’opera nel suo profondo.

E visivamente?

Diciamocelo: per quelli che sono cresciuti a pane e Gainax, il chara design di Yoshiyuki Sadamoto risulta quasi sempre un valore aggiunto. Negli ultimi anni il suo stile si è incontrato con alcune caratteristiche più moderne, senza tuttavia perdere quella riconoscibilità che fa subito intuire di chi è l’idea dietro ai personaggi. Gli aspetti più interessanti della produzione, tuttavia, sono art direction e color design.

Le città mostrate in Great Pretender (in particolare Singapore) diventano parte integrante della narrazione soprattutto grazie ad una sfondistica di pregio che caratterizza ogni arco in maniera molto precisa. Le ambientazioni hanno una propria identità, e questo consente una varietà davvero fondamentale per una serie tanto rocambolesca ed intensa.

Dal punto di vista visivo, insomma, si tratta di una serie molto piacevole che pur non offrendo un “sakugashow” in piena regola ha comunque un’animazione piuttosto costante e di livello.

Conclusioni

A tutti gli effetti, Great Pretender è davvero una piacevole sorpresa. Ricorda sicuramente serie come Baccano, Durarara o 91Days, la precedente fatica di Kaburagi, eppure riesce a scolpirsi una forte identità alternando la frenesia degli imbrogli alla calma degli approfondimenti personali. Ed è importante riconoscergli questa qualità già adesso, in quanto pur mancando 10 puntate risulta perfettamente capace di stupire e appassionare.

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