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Sekiro: Shadows Die Twice, la lezione più dura è il fallimento

Dieci ore per capire come fallire, apprendere e adattarsi in Sekiro: Shadows Die Twice

A un anno preciso dall’uscita di Sekiro: Shadows Die Twice, sviluppato da From Software e dallo stesso Hidetaka Miyazaki, il ricordo è un tarlo decisivo, importante posto nel cervelletto di qualsiasi videogiocatore. Non importa a quale titolo sia legato, il suo genere preferito, il più odiato o venerato: sarà sempre lì, interminabile e ineluttabile, a scatenare le sinapsi di chi, pad alla mano, è pronto a buttarsi nella mischia per approfondire un titolo, o semplicemente per goderselo, che è il motivo esistenziale perché noi tutti giochiamo ai videogiochi, oltre che per comprenderne l’arte e condividerla.

Nel caso di Sekiro: Shadows Die Twice, le vicende storiche narrate nella sua produzione ripercorrono il Periodo Sengoku, che vide intere provincie del Giappone Feudale scatenarsi in una guerra fratricida per il dominio totale. In tal senso, ripercorrendo l’attualissimo manga “Hanbei: l’Immortale”, a determinare la faida narrata nella cinematica iniziale del titolo è la lotta tra il Clan Ashina – realmente esistito – e il Generale Tamura.

Laddove il sangue scorre a fiumi, si nota lo scorcio della brutalità di Sekiro: Shadows Die Twice, in una fedele rappresentazione del combattimento all’arma bianca nipponico che non lascia spazio per ulteriori interpretazioni. Due uomini, un campo fiorito, migliaia di morti.

Sekiro: Shadows Die Twice

Una katana, quella di Ishiin Ashina, il più abile del suo clan; dall’altra parte Tamura-san, il generale che domina le lande settentrionali, un signore della guerra senza scrupoli, armato di una lunga lancia che utilizza per affondare i suoi colpi, spazzare gli avversari, sgominare chiunque incroci il suo cammino. Ma non Ishiin Ashina, non colui che, dal manga “Hanbei: l’Immortale”, è un guerriero formidabile, dedito ad allenamenti intensi per raggiungere la perfezione per ogni colpo inferto. Uno scontro brutale, come se ogni fendente o affondo fosse l’ultimo; poi, alla fine, il colpo mortale, quello letale ad aprirsi la strada nelle carni dell’avversario. Il sangue che schizza, la morte istantanea.

“Il Generale Tamura è stato sconfitto!”

Dalle ceneri della battaglia un bambino raccoglie delle lame. Un orfano della guerra, uno dei tanti. Il Gufo, un maestro Shinobi, lo osserva e ironizza sulla sua condizione, ma non lo umilia. Sguaina la spada, gliela appoggia sulla tempia. Un taglio leggero. E poi, lo prende con sé.
Il preludio si conclude qui, nell’ottica narrativa, su cui non voglio soffermarmi. Però, è utile fare chiarezza: Sekiro ha una narrazione marginale, ma intensa. Oltre ogni misura, è parte di un mondo che cambia per gli eventi con cui il videogiocatore interagisce durante l’intera esperienza, capace di rendersi elevata e al tempo stesso coi piedi per terra, cui lascia presagire un elemento e poi, all’improvviso, lo spazza via totalmente. Suggerisce dunque molto, ora a chi, dopo un anno, vuole approcciarsi a Sekiro: Shadows Die Twice.

Come diceva Joker in Arkham Origins: “Nulla è più brutale dei ricordi“, e ora questo concetto è una certezza determinante utile a descrivere quelle ore interminabili per comprendere Sekiro: Shadows Die Twice.

Ora, lasciate che ve lo dica: ci ho impiegato dieci ore per capirlo. Chi lo ha fatto prima, be’, buon per lui. Tuttavia, gli errori che chiunque può fare approcciandosi al titolo, in un modo o nell’altro, sono universali per tutti. Un errore comune, durante il primo approccio, era la schivata.

Perché schivare può essere utile, pur non essendolo affatto.

Lo ammetto: è una sintesi pessima per spiegare una schivata, ma è fattuale con quanto si affronterà, nel caso qualcuno voglia approcciarsi a Sekiro. Una schivata ha una possibilità molto ampia per evitare un colpo, come indietreggiare per poi menare un fendente o contrattaccare.

Ecco, in quel momento quello che cambierà, in termini ludici, sarà il nemico che avrete di fronte. Armato di spada e lancia, potrà sgominarvi, farvi una spazzata, tenterà comunque di colpirvi e incalzarvi. Non si fermano, non lo faranno mai, mai, ma mai; non ne hanno il benché minimo motivo.

Per evitare un fendente, schivare è utile, ma non è essenziale. Chi ne abusa troppo finisce poi per essere colpito da una spazzata, e l’unica certezza è una, e si palesa con un Kanji in rosso che significa “MORTE”.

Sekiro: Shadows Die Twice

Un errore madornale, appunto, è abusarne: seppure Sekiro provenga dalle mani di Hidetaka Miyazaki, autore e sviluppatore di Dark Souls e Bloodborne, non si avvicina, se non in certi rimandi di sviluppo di gioco, a questi capisaldi. Anzi, è mirato a essere sia un action che un GdR, quanto più un ibrido che raccoglie e affina una progressione mirata alle abilità del videogiocatore, il quale impara i diversi metodi d’approccio.
Lupo non migliora salendo di livello. Dopo ogni scontro con un miniboss o un boss, raccoglie Grani di Rosario o Ricordi dello scontro. Potenzia la propria postura e il proprio attacco, e così via.

Tornando dunque alle schivate, che sono utili in certi istanti concitati in cui è necessario per il videogiocatore respirare un istante, il discorso è fondante quando poi si troverà di fronte un nemico rapido. Penso ai samurai del Governo Centrale, i quali compariranno a un certo punto dell’avventura, capaci di essere rapidi a tal punto da essere accessibili una volta che si sarà affinata la deviazione.

In dieci ore di gioco, non ne ho mai fatto uso. E ho fatto male. Se la mia esperienza può servirvi, là fuori, sappiate che imparare a deviare è una manna dal cielo che può letteralmente salvare la vostra sanità mentale. E mi raccomando, non fracassate il pad, se non vi riuscirà subito, seppure quel desiderio incontenibile sia viscerale, uno sfogo necessario a ore e ore di fallimenti. Ma credetemi: non fategli del male, ha dei sentimenti. E poi, diciamocelo, un fallimento è un fallimento; può solo essere rimpiazzato da grandi successi. A volte, ovvio.

Il fallimento

In Sekiro: Shadows Die Twice il fallimento nelle dieci ore, ma anche oltre, è una determinante alquanto costante. Il videogiocatore sarà lì a domandarsi dove sbaglia, perché, quale sia l’approccio migliore. Ecco, ognuno di noi ha un suo personalissimo metodo per affrontare i nemici, però quello che ci viene fornito è uguale per tutti, a partire da Kusabimaru e gli strumenti prostetici.
Dove sbagliavo io, nello scontro, era buttarmi a capofitto contro i nemici attaccando e basta, per poi schivare o evitarli con l’utilizzo delle castagnole. Certe volte andava bene, altre volte no, e ciò mi ha portato a bloccarmi e a fare incetta di emblemi spiritici in ogni sezione primaria scoperta, per compensare questo fallimento totale che sfociava in vari istanti di smarrimento.
Ma quello che non mi fece mollare, nonostante i fallimenti continui, non fu la propensione a un autolesionismo sfrenato per compensare una mancanza d’altro, quanto al fatto che forse non avevo compreso alcunché di Sekiro: Shadows Die Twice. Ed è un legame che può unire i videogiocatori, quello del fallimento e dell’incomprensione di un titolo.

Dieci ore per capirlo, altre innumerabili per affinarlo…

Se non altro, la situazione non cambia dopo dieci ore. Imparare a deflettere è importante poiché si affina una propria abilità, e mille altre giungono al videogiocatore per spingerlo a un approccio più accurato, in linea col titolo. Un’abilità fra tutte, realmente capace di rendere l’esperienza più fruibile, è la contromossa Mikiri.
Per chi non la conosce, è la possibilità di bloccare col piede un affondo, sottoforma di attacco imparabile, capace di oltrepassare una parata e colpire. Di sicuro, di abilità ce ne sono tante, ma l’importanza del Mikiri, che è utile e fondamentale dopo aver imparato a deflettere, è importante.

Anche in questo contesto, quel lasso di tempo per comprenderlo bene e farne uso è importante. Infatti, a essere peculiare in Sekiro: Shadows Die Twice è il tempismo. Il Mikiri n’è l’esaltazione, le deviazioni sono gli esempi più concreti. Attendere è spesso una strategia ben amalgamata se nel complesso, poi, si vuole cercare di contrattaccare fino a rompere la postura avversaria. Poiché Sekiro, come affermato da Hidetaka Miyazaki ben prima della sua uscita è fondato sull’offendere, l’intensità del sistema di combattimento è calcolabile frame per frame, se lo si tiene d’occhio come misura di apprendimento.

Sekiro: Shadows Die Twice

Un lavoro mastodontico e fedele per catturare con realismo ogni anfratto caricaturale rappresentato, a tal punto da dimostrarsi una danza che riempie gli occhi e fonda, all’interno di se stessi, una maturazione intesa e pregressa col tempo. Non è determinabile quanto ci si possa impiegare per comprendere Sekiro: Shadows Die Twice né per formulare un pensiero su quanto accadrà durante il new game plus, che non aggiunge e tanto meno offre degli elementi ulteriori, se non un aumento della difficoltà su cui comunque si apre ulteriormente un discorso mirato alla narrazione che spinge a completare tutt’e quattro i finali proposti.

Dunque, il fallimento è inesorabile. Come precedentemente scritto, quel che Sekiro: Shadows Die Twice manifesta nella sua accessibilità è a mettere al centro il videogiocatore nei suoi limiti. Qualsiasi essi siano, in qualsiasi linea o maniera possano essere esplicabili, non sono fini a se stessi. Di boss ce ne sono diversi e tutti loro hanno cattiveria e brutalità d’animo.

La loro cattiveria sanguinaria è rallentata soltanto dal desiderio di vedere quel Kanji in rosso con su scritto “MORTE” apparire al centro dello schermo, a meno che non si utilizzi la resurrezione per colpirli alle spalle e magari ucciderli, se precedentemente li avete portati allo stremo. Però, è fondante vagliare tutte le possibilità.

Lupo è fornito di armi, strumenti attaccati al braccio prostetico e ad accesso a delle combo che può utilizzare, ed è qui il lato divertente: che è il videogiocatore a decidere quali, imparando a farlo. Ed è qui che si apre il paragrafo più interessante di tutto questo delirio.

Apprendimento

Imparare è bello, ci riempie di gioia e spesso ci esaltiamo quando riusciamo a raggiungere un obiettivo, a conquistarlo e a trasmetterlo agli altri. Non è per tutti riuscire a cogliere l’ultimo punto, ma Sekiro: Shadows Die Twice apprezza l’impegno quanto l’attenzione a ogni sua sfaccettatura. Premia poco, ma lo fa manifestando soddisfazioni ineguagliabili, di caratura e morale bellezza, intesi soprattutto quando decide di raggiungere il massimo del proprio potenziale facendo fare un frontale in contromano sulle proprie insicurezze.

Sekiro: Shadows Die Twice

Perciò, prendersi del tempo per imparare bene ogni contromisura e sopravvivere non è affatto semplice. Entra in gioco dunque una questione non affatto secondaria: la difficoltà e come si giunge, poi, all’accessibilità con le proprie forze. Ogni scontro diventa una lezione da prendere e aggiungere alle proprie capacità intrinseche mirate alla tecnica, che è un fattore primario nell’approccio al combattimento. Dieci ore per capire che non si tratta di Dark Souls, altre infinite ore per comprendere che ci sono differenti modi per uccidere i propri avversari. E poi, finché non giunge la consapevolezza di aver compreso ancora, ecco che si fallirà nuovamente.

Le mie prime dieci ore su Sekiro: Shadows Die Twice sono state catastrofiche. Per concluderlo ci ho impiegato un mese, dal 22 Marzo al 24 Aprile. Qualunque sia comunque la morale, poi si arriva a una conclusione: se anche impari a conoscerlo, il bastardo ti ucciderà sempre. D’altronde, ne avevamo già parlato nella recensione.

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