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Oscar 2019: Bohemian Rhapsody e il suo latrocinio

And the Oscar goes to…

Dopo una preparazione alquanto travagliata e complicata, anche quest’anno gli Oscar tornano a far discutere più che mai. Con una decisa carrellata di sorprese (in gran parte negative), l’edizione di quest’anno potrebbe esser ricordata nel tempo come quella che vide Shakespeare in Love ricevere ben 7 statuette. Ovviamente non si vuole fare la benché minima riflessione sulla cerimonia in se, quanto piuttosto sui blasonati premi ormai sempre più alla deriva. Quest’anno più che mai trionfa infatti il cinema dai grandi incassi.

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Hannah Beachler e Jay Hart, Oscar alla migliore scenografia per Black Panther

Non è un mistero, nessuno sta cadendo dalle nuvole: il leggendario riconoscimento ha sempre gravitato intorno a discorsi quali la popolarità e la politica. Resta però il fatto che una manifestazione di questo genere (anche in base alla sua fama) dovrebbe volgere di dovere una particolare attenzione al cinema e alla sua essenza. Premiare i film solo in base al loro successo è anche comprensibile, ma entro certi limiti.

Quest’anno più che mai vengono ignorati i film d’autore

Ovviamente, questo non è successo. Penalizzato dalla necessità di racimolare qualche ascoltatore in più, il cinema d’autore (escluso Roma) è stato completamente derubato. Quel capolavoro de La Favorita (forse uno dei film tecnicamente più completi di quelli in corsa durante quest’edizione) ha ricevuto una misera statuetta a fronte di 10 nomination. È bene precisare poi che stiamo parlando di pellicole d’autore, non di film di nicchia scritti da autori polacchi morti suicidi giovanissimi.

Leggi anche: Oscar 2019: Ecco tutti i vincitori e candidati

Altra opera cinematografica completamente depredata del suo valore è senz’altro Vice. Con 6 nomination a carico, il biopic sulla carriera politica di Dick Cheney è riuscito ad aggiudicarsi un solo riconoscimento, quello per il miglior trucco.  Passabile (ma non troppo) la sconfitta di Christian Bale nei confronti di Rami Malek, risulta invece intollerabile la disfatta del montaggio sempre a favore di Bohemian Rhapsody.

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Rami Malek, Oscar al miglior attore protagonista per Bohemian Rhapsody

Al contrario di Vice, il biopic su Freddie Mercury e la nascita dei Queen si presenta con un montaggio ben povero di guizzi artistici. La pellicola di Adam McKay fa invece del montaggio il suo perno, elevando la tecnica ben oltre un semplice lavoro d’intrattenimento.

Ora è necessario fare un piccolo appunto: al contrario di quel che si crede generalmente, il montaggio non si riferisce tanto ai tagli all’interno di una pellicola, quanto alla messa in relazione tra due immagini (non a caso alcuni teorici sostengono esista una forma di montaggio anche in alcuni tipi di piani sequenza). In base allo stile, ci sono ovviamente diversi modi per definire il montaggio di una pellicola nella sua forma.

Un montaggio scattante

Il montaggio è inoltre uno spartito che scandisce le tempistiche della pellicola, Hank Corwin (già montatore de La grande scommessa, il precedente progetto di Adam McKay) in questo si è già dimostrato un grandissimo direttore d’orchestra. Col suo montaggio, Corwin prende a cazzotti lo spettatore per tutta la durata della pellicola. 2 ore e 12 minuti di adrenalina scandita solo dai frenetici tagli fra una scena e l’altra. Lunghi stacchi neri daranno tempo allo spettatore di rielaborare quella smisurata quantità di informazioni esplose dallo schermo nel giro di pochi minuti, il ritmo è strepitoso.
Non c’è dubbio che stiamo parlando di un film che merita almeno una seconda visione.

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Sam Rockwell nei panni di George W. Bush.

Come avevamo però già accennato prima, il montaggio è, più di ogni altra cosa, la messa in relazione di più immagini fra di loro. L’intenzione del regista e di Corwin era quella di avvalorare il significato della pellicola attraverso un ponderato gioco di accostamenti; costringendo lo spettatore a ricercare un senso logico ben studiato. Sostanzialmente quello di Vice potrebbe venir definito come montaggio connotativo, chiave del cinema di Sergei Eisenstein, celebre proprio per la sua dedizione al montaggio.

Il risultato è indubbiamente riuscito e accattivante. Delle tante fantastiche sequenze risulta impossibile non citare il dialogo in cui Dick Cheney (Christian Bale) cerca di adescare George Bush (Sam Rockwell) per i propri interessi: in maniera abbastanza scatenata ed esaltante, le linee di dialogo vengono accostate parallelamente ad alcune scene che ritraggono una battuta di pesca mentre abbocca la preda. Anche se di facile comprensione, il prodotto finale è sicuramente a effetto.

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Christian Bale nei panni di Dick Cheney.

Se in Ottobre Eisenstein si era servito di un elemento estraneo quale il pavone meccanico per avvalorare una data sequenza, in Vice la figura di Dick Cheney viene continuamente accostata ad elementi legati alla caccia. Un po’ a dipingere Cheney come fosse stato uno dei più grandi predatori all’interno della Casa Bianca.

Sostanzialmente, viene da chiedersi per quanto tempo ancora gli Oscar saranno considerati come metro qualitativo. Vice potrà anche non piacere, ma il montaggio era forse una delle categorie dove proprio non poteva perdere, specialmente contro Bohemian Rhapsody.

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Lorenzo Marcoaldi

Lorenzo Marcoaldi

Cinefilo e videogiocatore incallito, non perdo mai l'occasione di andare al cinema. Appassionato del cinema riflessivo di Villeneuve e quello parodistico di Edgar Wright, considero la trilogia del cornetto un monito da contemplare saltuariamente.

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