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Alita: se solo tutti i blockbuster fossero così [No Spoiler]

Quanto è bello andare al cinema senza aspettarsi nulla? Anzi, temendo pure la vaccata rotante, di quelle che fanno dei giri immensi e poi ritornano. Alita era lì, sull’orlo del dirupo, perché i rischi erano in fila come i soldatini: adattamento americano di un manga cult; due autori che lo rimaneggiano per tanti, forse troppi, anni; CGI a manetta; cast di gente famosa. Insomma, il mix poteva essere quello del tipico blockbuster senz’anima, pronto a macinare grano peggio di un Jordan Belfort sotto Natale.

Gente, ma ce ne fossero di blockbuster come Alita.

Perché bisogna togliersi subito il dubbio: Alita funziona. È credibile, onesto, di cuore. Si sente tutto il lavoro di James Cameron, che ha cullato il progetto per vent’anni (e l’ha quasi preferito ad Avatar), si vede la voglia di creare un blockbuster che lasci qualcosa allo spettatore. E perché Alita funziona? Beh, proprio per Alita.

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La giovane cyborg che si risveglia senza memoria è semplicemente adorabile. Su una scala che va da kawaii a John Rambo, Alita balza su ogni piolo, piroettandoci nei sentimenti perché noi, dal primo istante in cui le vediamo schiudere gli occhioni, le vogliamo già bene. Il lavoro di motion capture fatto su Rosa Salazar è qualcosa di maestoso. Alita è viva, molto più di tanti attori in carne e ossa. È come se ci facesse dimenticare la CGI, riuscendo praticamente ad azzerare quello scarto che spesso l’utilizzo della Computer-Generated Imagery crea nei nostri occhi, tra ciò che è reale e ciò che è fatto al computer.

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Alita e Alita funzionano perché noi scopriamo la vita assieme a lei, “nasciamo” a tempo, facendoci invadere da questo mondo retrofuturista che è spruzzato di mariachi, piuttosto che di Atari. Iron City è tangibile, sporca, rozza e con pochissimi scrupoli. Alita ci si inzuppa dentro, affamata di esperienze, ed è una gioia per gli occhi vederla sorridere, o addentare un pezzo di arancia. Il legame che si crea tra personaggio e spettatore è genuino, tanto che non vorresti mai vederla off screen.

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Ecco dove Alita funziona: il rapporto CGI-realtà è gestito con equilibrio. Le scenografie sono vere, riesci a sentirle, e non si abusa mai del green screen. Cameron e Rodriguez hanno voluto riportare il blockbuster a una dimensione più umana, riuscendo a farci innamorare di una protagonista tutta in CGI. Ecco perché funziona anche il rapporto con il Dottor Ido di Christoph Waltz, “padre” che vuole proteggerla e incoraggiarla, capace di aprirsi alla “figlia” anche quando significa doverla lasciar andare.

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Perché dentro Alita c’è veramente di tutto, e chiunque può trovare un elemento in cui immedesimarsi. Si perdonano al film delle facilità di trama proprio perché noi le dobbiamo scoprire come Alita stessa, che deve farsi raccontare ogni cosa, altrimenti rischia di essere inghiottita. Anche se, in realtà, è lei che si mangia tutti, usando la fragilità come forza e conquistandoci con un sorriso e con la testa di un nemico in mano.

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Perciò Alita è un film perfetto? Lo è nelle intenzioni, meno nella realizzazione. Perché si vede la volontà di condensare il mondo di Yukito Kishiro in due ore di film, ma l’operazione risulta impossibile, nonostante il tentativo. L’impronta di Rodriguez viene inghiottita dalla macchina del blockbuster (soprattutto nelle scene più cruente, edulcorate per il pubblico più giovane) e la regia poteva regalarci qualche gioia in più (magari un piano-sequenza nella rissa del bar). Una delle pecche più grandi è il non aver sfruttato un mastodontico attore come Mahershala Ali. Il suo Vector è un pupazzo vuoto, cattivo perché sì (o perché cita Milton?), senza un minimo di sfaccettatura o approfondimento. Tutto è per Alita, forse troppo.

Eppure l’equazione ci saluta con un sorriso, incastrando i suoi ingranaggi in un film fluido, in grado di lasciare un segno dove sembrava impossibile, come un viso angelico che si colora il volto di rosso per far ululare la sua battaglia.

VOTO: 7

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Edoardo Ferrarese

Edoardo Ferrarese

Nato a Novi Lugubre l’11/11/92, anche se nessuno lo ha interpellato sulla questione. Laureato in Lettere Moderne senza infamia e, soprattutto, senza lode, capisce che magari gli piace la critica cinematografica e il Cinema tutto, anche se troppo tardi, e che vuole scriverne, perciò prende pure un diploma alla Scuola Holden (tanto per non continuare a sembrare un radical chic di merda). Finirà per insegnare letteratura italiana nel liceo del suo diploma, però questo non ricordateglielo mai.

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