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I videogiochi rendono analfabeti? Rispondiamo a Calenda

I videogiochi causano l’analfabetismo, ne siamo sicuri?

Pochi minuti fa è arrivato l’ennesimo, insulso attacco al mondo dei videogiochi. Protagonista questa volta è Carlo Calenda, ex ministro dello sviluppo economico dei governi Renzi e Gentiloni, il quale tramite un post su Twitter ha espresso un concetto frutto di un’analisi a nostro avviso estremamente superficiale: i videogiochi, o meglio, i giochi elettronici causano l’analfabetismo. In quanto videogiocatori ed appassionati del medium, abbiamo deciso di rispondere, a modo nostro, alle parole di Calenda.

Il videogioco: ragionamento ed educazione

L’errore nell’analisi dell’ex ministro è palese, e salta subito all’occhio: come può un prodotto di intrattenimento come il videogioco essere “una delle cause dell’incapacità di leggere, giocare e sviluppare il ragionamento“? Da sempre la stragrande maggioranza dei titoli in commercio sono stati creati con uno specifico intento: quello di far ragionare il giocatore, di renderlo parte attiva e non mero utilizzatore o fruitore di un bene acquistato. Basti pensare alle care vecchie avventure grafiche, come la leggendaria saga di Monkey Island, dove a farla da padrone era proprio la lettura delle sterminate linee di dialogo presenti e la conseguente opera di ragionamento derivante dalle stesse, senza la quale proseguire nel gioco era praticamente impossibile. Se non vogliamo andare così indietro nel tempo, possiamo invece pensare a Nintendo Labo, già trattato su questo sito, il quale è un prodotto dedicato a un pubblico dall’età media relativamente bassa. Grazie alle sue ingegnose costruzioni in cartone, il progetto Labo ha praticamente basato tutto il suo impianto ludico sulla stimolazione dell’immaginazione e della fantasia nei più piccoli, arrivando ad essere utilizzato addirittura da alcuni insegnanti per l’educazione dei minori, che hanno dunque esteso i crismi della pedagogia montessoriana anche al mondo videoludico. Educare i bambini lasciando spazio alla creatività attraverso le esperienze interattive digitali, non sembra esattamente un metodo poco adatto di sviluppo della ragione. Passando a prodotti considerati meno di nicchia rispetto al già citato Nintendo Labo, sono diverse le case di sviluppo che stanno puntando molto sul rendere l’utente parte integrante del mondo che è stato costruito, spingendolo a fare scelte che, per quanto giocose, richiedono comunque un’attenta ponderazione.

Switch NintendoLabo TopArt

Non esiste videogioco senza videogiocatore

La passività richiamata da Calenda dunque mal si presta al mondo videoludico, così come non ci sembra calzante la definizione del reagire e non agire. Per ciò che riguarda la passività, bisognerebbe chiarire che senza un videogiocatore attivo, il videogioco diventa un supporto riempito di file senza senso alcuno; senza un giocatore attivo, il videogioco non esiste. Per quanto riguarda il meccanismo di reazione ed azione, bisogna invece fare una precisazione: il panorama videoludico offre comunque titoli in cui l’agire viene messo da parte in favore della meccanicità di una reazione. Call of Duty, Battlefield, Fortnite e PUBG sono solo alcuni degli esempi più lampanti di un genere videoludico che fa sviluppare le azioni del giocatore su binari: raccogli, spara, costruisci, spara.Tuttavia, occorre prestare attenzione, con questo non intendiamo dire che i titoli citati in precedenza siano il male dell’industria, quanto piuttosto che la meccanicità delle reazioni dei videogiocatori sia limitata a singoli generi, o meglio, a singoli titoli che hanno un target ed un impianto di gioco molto ben delineati. Queste forme di meccanica reazione all’interno dei videogiochi sono dunque limitate a singoli titoli e non a tutte le esperienze interattive, che hanno ormai raggiunto una qualità così elevata da poter essere tranquillamente equiparate ad discipline come la Letteratura, la Musica e la Cinematografia. Il metodo di fruizione è sicuramente diverso, ma non per questo meno utile all’individuo che appunto ne fruisce.

Call of Duty® Black Ops 4 20181014153311

Il videogioco come forma d’arte

Bisognerebbe dunque distaccarsi da quella concezione che vede il videogioco come uno strumento antisociale, che può provocare ingenti danni alla psiche degli utenti e che rappresenta la massima diseducazione, e finalmente capire che il videogioco è una forma d’Arte che, se correttamente sfruttata, può educare ed aprire la mente dei giocatori e stimolarne l’immaginazione. Ovviamente, come con tutte le cose, l’abuso o lo scorretto utilizzo di questi può portare all’alienazione dell’individuo o a problemi più gravosi, ma in questo caso i videogiochi più che la causa, sono da considerarsi sintomo di un disagio che va al di là del videogioco stesso. Bisognerebbe dunque evitare di creare disinformazione e di additare i videogiochi come responsabili delle turbe giovanili di bambini ed adolescenti, e cercare di rimediare ai profondi disagi che per un motivo o per un altro colpiscono queste figure. Ma non sta di certo a noi trovare la soluzione.

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Carlo D'Alise

Carlo D'Alise

Videogiocatore dagli indimenticabili tempi dello SNES. Praticante avvocato nel tempo libero, appassionato in particolare di Action, Soulslike ed RPG, ma in generale del videogioco in (quasi) tutte le sue declinazioni. Sono ad un panino dall'obesità.

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