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Reportage Future Film Festival

La scorsa volta ci siamo interrogati su quanto l’animazione moderna possa fare i conti con quella del passato, tenendo ben presente il modo in cui la tecnica si è evoluta e continua ad evolversi.

La computer grafica, la cut-out, il rotoscopio, la stop-motion, Flash, ToonBoom e gli altri vari software, rappresentano i vari mezzi espressivi che l’animazione mette al servizio del regista e del suo staff; in Italia però tuttora non si riesce pienamente a percepire la profondità di questi cambiamenti in quanto in termini produttivi il paese dello stivale è piuttosto indietro rispetto, per esempio, a nazioni come la Francia. E’ molto difficile vedere più di un film all’anno nelle sale, e in televisione la situazione sembra anche più nera; c’è quindi bisogno di parlare di queste tematiche e di confrontarsi con il mondo per capire quanti passi in avanti ha fatto l’animazione e quale diffusione ha realmente raggiunto.
Nel nostro paese ci sono due eventi dedicati proprio a questo: uno è il Cartoons on the Bay, organizzato dalla Rai in varie città d’Italia (le ultime due edizioni si sono tenute a Torino), e l’altro il Future Film Festival (da ora FFF), giunto alla XX edizione, di cui questo è il mio reportage.

Premessa

Questa è la mia quarta edizione da visitatore del festival, la seconda con il pass stampa (quest’anno pure saltafila, grazie youtube), ma è sostanzialmente la prima in cui ho deciso di guardare il più possibile per poterne scrivere. L’obiettivo è, come sempre parlare di animazione, attraversando questa volta un ampio numero di paesi diversi; il FFF presenta infatti ogni anno un programma ricco di film provenienti da ogni parte del mondo, tra quelli in concorso e fuori concorso (e ricordiamoci dello spazio importante dato ai corti, trasmessi la sera gratuitamente). Quest’anno sono stati 33 distribuiti tra il 29 maggio e il 3 giugno, tra cui gli 8 lungometraggi e mediometraggi diretti dal maestro Isao Takahata a cui è stata appunto dedicata una rassegna personale e una tavola rotonda coordinata da Enrico Azzano (critico cinematografico e autore assieme ad Andrea Fontana di un bellissimo libro sullo Studio Ghibli) con ospiti Claudio Acciari, Emiliano Mammuccari e Luca Della Casa.
L’obiettivo era vederne almeno la metà più uno (anche se la metà di 33 è un po’ difficile da ottenere), cercando di incastrare in modo rocambolesco i vari impegni, e malgrado i soliti imprevisti ho segnato sul taccuino 17 titoli visti, quasi esattamente 3 film al giorno. Si è trattato di un’esperienza impegnativa (più che altro perché abito dall’altra parte di Bologna), ma molto gratificante; la qualità generale dei film è stata piuttosto buona, e ho avuto modo di constatare le potenzialità di paesi asiatici come Taiwan (On Happiness Road) e la Corea del Sud (I’ll just live in bando – My Dogs, Jinjin and Akida), oltre che dare uno sguardo al chiacchierato Big Fish and Begonia, film cinese di da poco uscito nelle sale italiane.
Unico rimpianto: non essere riuscito a vedere Insects, nuovo lungometraggio di Jan Svankmajer.

MARTEDI’ 29

– La giornata inizia alle 12 col suddetto Insects, ma arrivo alle 14 in quanto la mattina, causa studio, è off-limits.
Tra due possibilità il primo film scelto è Un homme est mort (Olivier Cossu, Francia, 2018), adattamento di un omonimo fumetto realizzato nel 2006 sulla figura del regista René Vautier e sulla vicenda della morte di Edoard Mazé, un manifestante, per mano della polizia francese. Oggigiorno il contrasto con l’autorità e la sfiducia nella giustizia sono due temi di cruciale importanza, e affrontarli vuol dire confrontarsi con una materia complessa e difficile da esplicitare completamente. Olivier Cossu tenta di farlo concentrandosi con attenzione sul piccolo co-protagonista Zef, che non capisce perché l’amico Edoard sia dovuto morire, perché le persone che hanno giurato di proteggere i cittadini si sono macchiati di tale colpa e perché lui dovrebbe starsene buono e calmo a subire tale ingiustizia. La vicenda personale di Zef, invero parecchio interessante per capire il disagio di una classe sociale impossibilitata a reagire, viene però spesso sovrastata da una retorica forse troppo invadente che prende corpo dalle parole del personaggio di Vautier, sulla carta protagonista della pellicola ma effettivamente molto meno “intrigante” dei suoi comprimari. Per questo in alcuni punti la narrazione risulti alquanto pesante, seppur il regista provi a stemperare l’atmosfera tramite degli inserti musicali utili a spezzare il ritmo. Risultano quindi le vicende umane dei personaggi il fulcro principale d’interesse, non tanto la creazione del documentario che viene quasi lasciata sullo sfondo; la chiusura del film, tutta centrata sul dolore di Zef e sulla sua difficoltà di esprimerlo, lo conferma chiudendo il percorso del piccolo manifestante. L’animazione (presumibilmente) digitale fa il suo senza strafare: per quanto purtroppo il film presenti un numero forse troppo elevato di still frame, compensa con un character design estremamente adatto al tipo di storia raccontata, espressivo e raffinato malgrado la semplicità, usato da Cossu con intelligenza tramite inquadrature particolarmente ispirate (in particolare gli shot sulle mani, davvero ben realizzate).
VOTO: 7

Future FIlm

– Si continua nel pomeriggio con I’ll just live in bando (Yong Sun-lee, Corea del Sud, 2017), produzione coreana costata solo 42mila dollari (per fare un episodio di un anime ne servono in media 200mila) che dimostra come la povertà di mezzi possa essere compensata dalle idee. Junkoo Oh, il protagonista, è un attore di 46 anni posto davanti ad una scelta: cercare la soddisfazione personale tentando di risollevare la propria carriera o soddisfare i bisogni della propria famiglia accettando un posto fisso da professore? L’inquietudine che questo conflitto causa nel mite JunKoo viene espressa visualmente giocando con le linee e col corpo del protagonista, che si deforma gradualmente man mano che la vicenda si evolve e diviene sempre più nera per lui. Qualsiasi cosa si scelga, il fallimento è sempre dietro l’angolo: non esiste una vera “scelta sicura”, poiché la vita rimane imprevedibile e nessuno può prevedere cosa accadrà. Il film trascina questo messaggio ad una velocità folle aumentando il ritmo minuto dopo minuto e servendosi di personaggi assurdi come il Professor Choi per alzare sempre di più l’asticella del surrealismo, trasformando una storia tutto sommato normale in un film rocambolesco e ricco di colpi di scena. L’animazione spartana è il simbolo di come la precisione del disegno possa essere superata dall’efficacia del movimento e dell’idea che c’è dietro; fare animazione a bassissimo budget non è facile, ma anche l’imperfezione, se usata nel modo giusto, può avere la sua efficacia.
VOTO: 7.5

Future Film

Mutafukaz (Run e Shojiro Nishimi, Francia-Giappone, 2017) è un film che voglio vedere sin da quando è stato annunciato perché amo alla follia questo tipo di design e rispetto moltissimo il lavoro di Studio 4°C, la creatura dell’eclettico Koji Yamamoto e di Eiko Tanaka, che ha più volte realizzato progetti piuttosto particolari (Mind Game, Genius Party) e aperto le sue porte anche a collaboratori stranieri (ad es. Michel Arias, che ha diretto Tekkonkinkreet); l’attesa è stata ripagata, ma obiettivamente non è che ci sia moltissimo da dire.
E’ un lungometraggio estremamente divertente, che si sviluppa tramite citazioni ad un numero veramente alto di film di fantascienza (Man in Black, Alien, Essi Vivono) trattate come veri e propri elementi narrativi piuttosto che come mere referenze ad altri prodotti; il risultato è un festoso spettacolo di fuochi d’artificio, emozionante e coinvolgente, che porta sempre di più verso il limite la tecnica come gli animatori dello studio sono abituati a fare. Risulta importante l’ambientazione urbana attorno cui ruotano tutte le vicende, essendo veicolo assieme alla condizione disastrata dei protagonisti di una forte appartenenza alla strada che anima l’intera pellicola. Un finale forse un po’ troppo confusionario non intacca, insomma, un film d’azione genuino ed esagerato al punto giusto.
VOTO: 7.5

Future Film

Mercoledì 30

– Avendo saltato la sera prima Unseen di Soderbergh per non fare troppo tardi, riesco comunque ad arrivare in ritardo per Insects perdendomi così la seconda, e ultima, proiezione. Essendo iniziato anche “Le avventure del piccolo principe Valiant” (Dio, perdonaci), aspetto le 18 per vedere Big Fish and Begonia (Liang Xuan e Zhang Chu, Cina, 2016), che come riporta il programma del festival è stato “definito dai critici come la risposta cinese a La Città Incantata”.
Il che non vuol dire però che sia stata una risposta giusta: come tutti sappiamo, il maestro Miyazaki è assorto negli anni a termine di paragone per qualsiasi cineasta voglia confrontarsi con l’animazione tradizionale, data una precisa poetica che si sposa con una altrettanto precisa idea d’animazione. E’ molto facile che si provi ad imitarlo (l’aveva fatto anche Makoto Shinkai con In Viaggio per Agartha) come anche che stampa e critica avvicinino alle sue opere autori o singoli prodotti che le ricordano, anche solo alla lontana. Ciò detto, che Big Fish and Begonia si ispiri al cinema di Miyazaki è piuttosto palese per precisi riferimenti visivi, anche se per dare una nota di personalità si è fortemente puntato sul folklore cinese nella rappresentazione dell’immaginario fantasy in cui vive la protagonista. Se dovessi paragonarlo ad un film Ghibli, però, tirerei in ballo più I Racconti di Terramare di Miyazaki figlio, e diciamo che non è propriamente un complimento.
L’opera di Xuan e Chu parte infatti da un incipit già inutilmente complesso, presentando un mondo posto sotto il mare in cui abitano le divinità creatrici del mondo e dell’umanità che però non sono divinità (???); la protagonista, Chun, è una di questi, tenuta a compiere un viaggio di una settimana sulla terra sotto forma di strano cetaceo come rito d’iniziazione per la maggiore età. Tale linea narrativa, che viene rappresentata nei primi 5 minuti del film come la principale, viene abbandonata quando fanno il suo ingresso in scena un giovane pescatore col codino e la sua sorellina. Naturalmente dramma, il pescatore muore salvando Chun-cetaceo da una rete, e lei si dispera finché il ripoff di Yubaba non gli dà la possibilità di riportarlo in vita in cambio di metà della sua vita (che dovrebbe essere lunga, essendo una divinità ed avendo un nonno che sembra avere minimo 600 anni ad arto, ma che invece si traduce in pochi mesi di vita). Il neobattezzato Kun viene reincarnato nella forma di un pesce che ha proprio questo nome, e una volta cresciuto potrà ritornare sulla terra.
E qui inizia la discesa verticale del film, che continua ad aggiungere elementi e personaggi in corso d’opera senza mai approfondirli solo per giustificare gli avvenimenti della vicenda, causando una grave confusione negli eventi che oscura il fulcro centrale di tutto, ovvero il rapporto tra Chun e l’umano Kun: le volontà della protagonista sono infatti puramente egoistiche e difficilmente relazionabili, in quanto portano lo spettatore a considerarla un’irresponsabile continuamente salvata e giustificata dagli altri piuttosto che un’eroina vera e propria. Il risultato delle sue azioni palesa come queste non siano mai davvero positive, portandola quasi a divenire ad un certo punto il villain dell’intera storia: giustificarsi con il voler salvare il ragazzo per non lasciare sola la sorellina è ad esempio ipocrisia pura, in quanto per quasi 80 minuti, equivalenti nel film a presumibilmente mesi di tempo (e non è mai esplicitato che questo scorra diversamente nel mondo delle divinità), non se ne era mai preoccupata, occupata a danzare sotto la pioggia con il suo nuovo animaletto. E’ pur vero che un protagonista antipatico o dalle dubbie motivazioni non compromette per forza la qualità di un’opera, ma porsi con buonismo nei confronti di un personaggio che si è volutamente reso egoista e le cui motivazioni sono messe in forte discussione dagli stessi personaggi con argomentazioni praticamente inattaccabili rende insensate le conseguenze e banalizza il significato dietro ad ogni azione.
Un film che non riesce a raccontare davvero niente, provando con atmosfere fiabesche a rendere appetibile una storia pesantissima, priva di idee interessanti e sviluppata senza una base solida.
VOTO: 4

Future Film

On Happiness Road (Hsin Yin Sung, Taiwan, 2018) è stata una piacevole sorpresa, forse amplificata dal senso di desolazione causato da Big Fish and Begonia; partito già con buone aspettative per via di chiacchiere fuori dalla sala, questo film taiwanese mi ha particolarmente colpito per la capacità di esprimere il disagio di non capire più sé stessi ed avere la necessità di ritrovare un posto sicuro, che sia nei ricordi o nel luogo d’origine. Il rapporto tra la protagonista Chi e i genitori ricopre una parte importante del racconto, ma sono importanti anche le esperienze giovanili e il passaggio all’età adulta, che evidenziano come una forte filosofia di vita possa iniziare a vacillare col tempo, fino a schiantarsi quando i problemi non si riescono più davvero a capire.
Per questo si ha bisogno di avere accanto persone che tengono a te, quelle persone che ti capiranno, ti sosterranno e ti proteggeranno sempre, qualsiasi cosa succeda. Verso la seconda parte il ritmo diviene più grave, in accordo con i ricordi che dalla spensieratezza dell’infanzia passano alle complicazioni dell’età adulta; un cambio di tono che funziona, senza appesantire la visione.
Colori molto accesi per un film che spinge sulle capacità immaginifiche dell’animazione, tramite scene oniriche realizzate con uno stile volutamente “infantile”.
VOTO: 7.5

Future Film

– Chiudo la giornata con la proiezione serale di Pom Poko (Isao Takahata, Giappone, 1994), probabilmente il film di Takahata che ho visto di meno in tutta la mia vita (questa è stata la terza). Malgrado possa sembrare, ad una prima occhiata, un oggetto estraneo nella produzione di un Takahata dedito quasi sempre all’utilizzo di soggetti ben più realistici, Pom Poko ne è in realtà una tra le opere più rappresentative. La comicità iniziale fortemente promossa dai buffi comportamenti dei tanuki appare infatti come una facciata, un grosso telo nero che, cadendo, rivela lentamente il suo contenuto: quel di cui Takahata vuole davvero discutere è della società e dei suoi cambiamenti, usufruendo del folklore come collegamento culturale tra passato e modernità.
L’apparizione di un animale parlante davanti alle telecamere può avere realmente un impatto duraturo in un’epoca dominata dalla spettacolarizzazione televisiva? Le storie che per secoli hanno costituito le nostre culture vengono ormai spazzate via da un uragano di notizie di cronaca e le palazzine che coprono la boscosa collina di Tama rimpiazzano anche quel rispetto quasi religioso che c’era verso il folklore, relegato ora più alle produzioni cinematografiche e televisive che alla cultura vera e propria. E’ il pragmatismo moderno, che pensa allo sviluppo dell’uomo ma non a ciò che esiste attorno ad esso; esplode dunque un urlo di denuncia, in cui Takahata esprime una forte necessità di proteggere l’ambiente resistendo alle politiche espansionistiche attraverso l’impegno politico e sociale.
Un film coraggioso, scandito da un intelligente alternarsi di toni utilissimo a far crescere dentro lo spettatore la consapevolezza di ciò che il regista ghibliano voleva dire.
VOTO: 8.5

Future Film

Giovedì 31

-Essendoci fino alle 18 film che ho già visto nei giorni precedenti, arrivo con calma e prendo posto in sala Scorsese per vedere My Dogs, Jinjin and Akida (Cho Jong-duck, Corea del Sud, 2016).
La piattezza di un comparto tecnico alquanto dimenticabile viene compensata, almeno in parte, da una scrittura intelligente, capace di trarre da idee piuttosto semplici dei risolvi interessanti; la storia si struttura infatti tra momenti assurdamente comici e tentativi, a volte ben riusciti, di concretizzare un quadro preciso di una famiglia disastrata e disastrosa. Non c’è possibilità di redenzione per un padre irresponsabile ed ubriacone interessato più alla salute dei suoi cani che a quella dei suoi figli, solo un grande senso di colpa e altro alcool; purtroppo il film indugia sin troppo sull’allungare la parte iniziale con gag a volte assurde e ripetizioni sulla situazione familiare dei protagonisti (a lungo andare ben poco utili), arrivando ad inserire l’evento scatenante delle vicende fin troppo tardi. L’effetto sul ritmo è visibile, con un film che si trascina stancamente verso il finale offrendo una conclusione al limite del surreale, un evento che non chiude realmente la storia ma lascia anzi un fortissimo senso di stranezza.
VOTO: 6

Future Film

– Messinscena interessante a metà tra il racconto documentaristico e l’interpretazione storica per 1917 The Real October (Katrin Rothe, Svizzera, 2017); la scelta di spaziare tra le testimonianze di una buona varietà di intellettuali, ognuno con il proprio preciso pensiero, permette allo spettatore di ottenere un quadro ben preciso della Rivoluzione di Ottobre e degli eventi che hanno portato al suo scatenarsi. La narrazione presenta quindi un taglio alquanto specialistico, con lunghi discorsi parecchio dettagliati che rendono alquanto sciocchi gli intermezzi simil-rap di Majakosvki, indubbiamente un modo simpatico di alleggerire la pellicola ma anche un tantino fuori luogo per il tono generale usato. Interessante l’uso della cut-out animation in questo contesto, in quanto parecchio funzionale al racconto storico grazie al suo essere peculiare e pittoresca ancora oggi.
VOTO: 6.5

Future Film

– Dalla visione di Song of the Sea (Tomm Moore, 2015, Irlanda) non ho potuto che innamorami del lavoro di Cartoon Saloon, lo studio d’animazione di cui Tomm Moore è fondatore assieme a Paul Young. Non si sente spesso parlare di questa promettente realtà irlandese, e finora nessun film da esso prodotto è riuscito a rientrare i costi di produzione tramite l’incasso, e The Breadwinner (Nora Twomey, 2017, Canada-IrlandaLussemburgo) nonostante l’ormai abituale candidatura all’oscar e la produttrice d’eccezione Angelina Jolie non è di fatto riuscito ad espandere il nome del suo studio; in Italia è addirittura arrivato, completamente in sordina, con il deprimente titolo Sotto il burqa. Questo però non deve scoraggiare in riguardo alla qualità di un film capace di trattare una tematica pesante e quasi abusata con grande delicatezza; la Twoney offre tramite il suo sguardo uno spaccato su di una situazione difficile, e ricorda al tempo stesso il potere delle storie.
Quella di Parvana, una ragazza privata del padre a Kabul, è una storia che va raccontata, senza sé e senza ma; questa è l’epoca della mancanza di empatia, dove è più facile e più “giusto” pensare a sé stessi e non provare neanche a comprendere gli altri. La chiarezza di Breadwinner, che mantiene un un’universalità di fondo ma non rinuncia al mostrare la crudezza e la disperazione, è necessaria a capire cosa sta succedendo mentre ora sto scrivendo queste righe, o voi le state leggendo.
E le capacità creative dello staff di Cartoon Saloon danno sempre quella marcia in più, mantenendo una continuità estetica (ad es. anche questo film come i precedenti inizia con un’immagine particolare) e affidando alle immagini il compito di trasmettere la potenza della storia della famiglia di Parvana. In particolare il modo in cui la Twoney scopre lentamente il mistero riguardo il fratello Sulayman rende l’idea di quanto il soggetto sia stato affrontato con grande sentimento e passione, tenendo ben conto delle responsabilità che ci sono dietro ad una storia simile.
VOTO: 8

Future Film

Venerdì 1

– Arrivo sempre per le 18, ma questa volta in sala mi aspetta un film alquanto particolare, in verità più per il suo soggetto che per la tecnica utilizzata. The Man Who Knew 75 languages (Anne Magnussen, Norvegia-Lituania-Regno Unito-Germania-Romania, 2016) utilizza infatti il rotoscopio, un modo di fare animazione che prevede il ricalco di scene girate da attori reali usufruendo della pellicola; pur avendo una lunga storia alle spalle, che spazia dai Fleischer a Bakshi passando anche per la Disney, oggi viene sempre meno usato e la sua ricezione da parte del pubblico non è poi così spesso positiva.
Anne Magnusson (presente al festival) si avvicina alla rotoscope animation per raccontare la storia di un geniale linguista vissuto nella Germania della seconda metà dell’800, proprio in un momento in cui la bussola era puntata verso l’unità culturale e sociale a discapito di tutte le minoranze linguistiche. L’uso di una tecnica tanto bistrattata diviene funzionale al mostrare come ogni espressione di un linguaggio possa avere la sua dignità: il rotoscopio viene quindi comparato al dialetto, e nella sua integrazione ad un ambiente reale si percepiscono diverse volte, durante la visione, dei momenti davvero affascinanti (anche se, a onor del vero, i personaggi raggiungono raramente un buon livello di espressività)
A corredare la forte scelta stilistica della sua regista, la narrazione non-lineare del film permette di avere un quadro soddisfacente della missione di Georg e dell’amore di quest’ultimo per la cultura: in un periodo problematico come questo, la lezione del geniale linguista risuona quantomai fondamentale, e pur confezionando un film probabilmente ostico per una certa fetta di pubblico, la Magnussen regala un’esperienza capace di arricchire e far riflettere.
VOTO: 7

Future Film

– Mentre in una delle due sale viene proiettato Mary e il fiore della strega, faccio l’hipster e decido di avventurarmi nella visione de Il Barone di Munchausen (Karel Zeman, Cecoslovacchia, 1961) in una versione restaurata. La presenza di un film in live-action, seppur fuori concorso, all’interno di un festival dedicato in primis all’animazione potrebbe stranire, ma questa meravigliosa trasposizione delle bislacche avventure del famoso Barone (affrontate sul grande schermo, tra gli altri, anche dal sempre amato Terry Gilliam) rivela fin da subito i motivi della sua proiezione: il Future Film Festival, com’è affermato dal nome, punta a presentare il cinema del futuro, e per quanto suddetta pellicola abbia ormai quasi 60 anni è sorprendente constatare come molti degli effetti visivi utilizzati non abbiano nulla da invidiare alla moderna CGI. Prerogativa dell’animazione è riuscire ad arrivare laddove la realtà è invece costretta a fermarsi: i draghi non esistono, e dunque non possono essere ripresi da una videocamera, ma possono essere portati in vita attraverso il disegno. E tramite la creatività, Zeman e il suo staff sono riusciti al tempo ad eguagliare tali possibilità immaginifiche: la feroce battaglia con i Turchi che culmina in un’esplosione di rosso, il Barone che viene lanciato come una palla di cannone o l’interno della creatura marina che divora la nave sono solo piccoli esempi di un immaginario visivo solido e stupefacente che sposa alla perfezione la bizzarria delle avventure di cui ha scritto Rudolf Erich Raspe.
Un gioiello da riscoprire senza alcuna esitazione.
VOTO: 9

Future Film

– La stanchezza accumulata si fa sentire e salto una proiezione, quella del mio film d’animazione preferito (La storia della Principessa Splendente); conoscendolo, so che la visione mi causerebbe un collasso fisico e mentale, e volendo resistere fino all’ultimo film rimango su una seggiola a scribacchiare per darmi un tono. Le ore passano lentamente, ma fortunatamente quando arriva il momento di DC Superheroes vs. Eagle Talon (Frogman, Giappone, 2017) è subito delirio.
Spesso si è discusso di come malgrado tutto il battage mediatico di questi anni nell’animazione giapponese continuino a non girare moltissimi soldi: tutta la Eagle Talon, malefica organizzazione criminale, nei primi 5 minuti festeggia perché per la realizzazione del film il comitato di produzione ha stanziato ben 300.000 yen.
Cifra con cui forse si riuscirebbero a realizzare 5 minuti di un episodio televisivo.
Frogman calca molto la mano sulla frustrazione di essere costretti a realizzare un lungometraggio da più di un’ora e mezza, trovando nel dolore di questa condizione costante una serie di intuizioni geniali su cui l’intero film poggia.
Un esempio può essere la “barra del budget”, un elemento narrativo fondamentale per l’intera storia: quando c’è da animare i personaggi di Eagle Talon, con quei design così rozzi e minimali, basta anche una singola persona vista la penuria di movimenti; se invece è il turno di personaggi appartenenti ad un marchio iper-popolare come quello DC, diviene necessaria una qualità che uno studio piccolo e scarsamente attrezzato come DLE non può garantire, dunque la barra scende mentre si commissiona il lavoro ad uno studio esterno (in questo caso, Gonzo) che giustamente vuol essere pagato. Come fare ad esorcizzare questa abituale tragedia trasformandola in un’idea vincente?
Naturalmente, usandola come intero leitmotiv della pellicola: Joker, nascosto nella casa dello show televisivo Terrace’s House, fa sprecare quasi tutto il budget agli ignari eroi già nel primo combattimento, continuando ad elaborare piani bislacchi (compreso girare un kaijuu movie che ha per protagonista un salaryman gigante) per portare le casse all’esaurimento e decretare la propria vittoria fino all’uscita di un sequel. I personaggi di Eagle Talon hanno la totale consapevolezza di trovarsi all’interno di un film d’animazione e di essere animati da una piccola compagnia senza un soldo (che il Pinguino fa anche fallire), come sono coscienti della delicata situazione del settore in cui si trovano a “lavorare”. Critiche sottili ma dure, senza risparmiarsi, vanno a colpire più volte Makoto Shinkai, Hideaki Anno, lo stesso Frogman e pure gli sponsor, in una “carneficina” che come scopo ha il ridere e far ridere di una situazione di cui il pubblico non è poi così conscio.
Ciliegine sulla torta: Batman lascia la Justice League per produrre anime educativi (a dir poco orribili) e l’intero film, volendo esagerare, è animato nel complesso per circa due minuti.
VOTO: 8

Future Film

Sabato 2

– La manifestazione inizia ad avviarsi verso la sua conclusione e mancano solo pochi film in concorso ancora da vedere: alle 15 mi reco quindi all’incontro su Isao Takahata, e alle 18 mi ritrovo pronto per il mio incontro definitivo con Mary e Il Fiore della Strega (Hiromasa Yonebayashi, Giappone, 2017). Ed è proprio vero che dalle delusioni, purtroppo, non si scappa.
Credo che a questo punto gran parte della colpa sia mia, ma sin dai tempi di Arrietty è molto difficile per me identificare Yonebayashi e capire quale sia il suo stile; il faccione di Mary incollato sulle parole “Studio Ponoc” dovrebbe voler indicare un’ambizione, un desiderio di staccarsi dal passato e divenire grandi senza l’aiuto di un nome forte dietro, ma i chiari riferimenti visivi e narrativi portano a tutt’altra conclusione.
Lineachiara, fantasy e bambina carismatica come protagonista: un trittico familiare usato in modo ancor più familiare, come se Hiromasa non avesse mai lasciato la sua scrivania e stesse ancora cercando di convincere Miyazaki di poterne essere un degno erede.
Richiamare il Ghibli porta pubblico, una necessità per uno studio neonato, ma la reiterazione senza sviluppo è forse qualcosa di impossibile da chiedere ad un regista comunque piuttosto famoso (per la considerazione che la categoria ha nel fandom) dotato di possibilità che molti suoi colleghi non hanno? Mary non aggiunge e non toglie niente al mondo cinematografico, passa come una leggera folata di vento che rinfresca giusto per quei due secondi necessari al caldo a ritornare ancora più forte di prima.
Sarei disonesto però a dire che si tratta di un brutto film: è dimenticabile, e molte volte è anche peggio.
VOTO: 6

Future Film

– Poche parole per Panda! Go, panda! (Isao Takahata, Giappone, 1972), qui direttamente seguito dal sequel Il circo sotto la pioggia. I due mediometraggi, sceneggiati da Hayao Miyazaki col character design del mentore Yasuo Otsuka, presentano un primo approccio di Takahata al tipo di serie che renderà il suo nome popolare tra gli anni 70 ed 80: scene comiche al limite dell’assurdo si alternano a momenti toccanti, precursori dell’enfasi drammatica presente in Heidi o Anna dai capelli rossi.
Un tassello da conoscere per comprendere a pieno il percorso di un regista molto più eclettico di quanto venga ricordato.
VOTO: 7

Future Film

Domenica 3

– Ultimo giorno del festival, pochi film rimasti. Arrivo alle 18 per Dave Made a Maze (Bill Watterson, USA, 2017), unico lungometraggio in competizione a non essere realizzato in animazione. Il concept del labirinto, sia fisico che mentale, aggiunge una nota di assurdo in un’opera altrimenti non così eccezionale: retto da battute piuttosto standard e da un messaggio alquanto abusato, trova nella giocosità del linguaggio e della tecnica il modo di regalare allo spettatore un’esperienza quanto meno interessante, governata da un uso estremamente creativo dell’effetto speciale.
E’ quando i mezzi sono pochi che viene alla luce un reale talento; la necessità di sfruttare ciò che si ha a disposizione spinge a spremere le meningi, a impegnarsi per far sì che quello di cui si dispone possa essere abbastanza per esprimersi a pieno. Bill Watterson e il suo team danno sfogo ad una rara creatività, forgiando un film divertente e quanto meno interessante per i modi con cui mette sotto stress i limiti del linguaggio cinematografico adoperando un budget che in molti ambienti sarebbe definito a dir poco insufficiente.
VOTO: 7

Future Film

-Prima dell’ultimo film in concorso lo staff mi fa entrare in Sala Mastroianni per assistere alla premiazione del festival, e manco a farlo apposta il vincitore è Window Horses (Ann Marie Fleming, Canada, 2017), proprio l’unico che mi resta ancora da visionare.
Non posso dire di non comprendere a pieno i motivi di tale scelta: le forti discussioni che stiamo vivendo sul piano razziale e culturale trovano ampia declinazione in un progetto che non fa gridare al miracolo per la tecnica ma riesce comunque a fornire tante questioni su cui ragionare.
Riscoprire le proprie radici, rendersi conto di quanta bellezza sia insita nel mondo, o percepire la cultura come qualcosa da sostenere in ogni caso; Ann Marie Fleming non si trattiene in termini di onestà, arricchendo la propria creatura di temi delicati affrontati senza timore. Conoscere rende forti, sapere completa l’anima, agire è necessario.
Il film interroga così una buona quantità di culture differenti partendo immediatamente da un’ambientazione (l’Iran) che suona proprio come un’istantanea dichiarazione d’intenti.
VOTO: 8

Future Film

Conclusioni

L’importanza di un progetto come il Future Film Festival diviene d’anno in anno sempre più evidente: l’animazione, in particolar modo quella giapponese, ha ora una tale ricezione da non poter più essere affrontata con superficialità, come se fosse un argomento da bar. C’è sempre di più la necessità di spiegare come dietro ad ogni film d’animazione esistano processi per nulla semplici e una serie di meccanismi che vanno capiti ed interiorizzati. Se non si sa cosa succede in Giappone, per esempio, DC. Superheroes vs. Eagle Talon corre il rischio di sembrare un’allegra cavolata; è facile dire che ogni piccolo difetto d’animazione sia dovuto al budget, perché non si conosce il ruolo che il tempo gioca nella produzione di un lungometraggio o di una serie animata.
O per essere proprio banali, quando un genitore si lamenta che ne Gli Incredibili 2 sono presenti delle parolacce è perché considera l’animazione come una tecnica ad uso esclusivo dei film per bambini, ignorando come in più di 100 anni di storia tale concezione sia stata smentita tante di quelle volte dai fatti da aver ormai perso il conto.
Festival di questo genere ampliano in maniera considerevole il discorso, portando alla massa una pluralità di voci, stili e tecniche che normalmente sarebbero lontane dall’attenzione; avere occasioni del genere serve ad aumentare la consapevolezza, e soprattutto a far si che si sappia davvero di cosa si sta parlando.

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