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Bright – La nostra recensione

Il nuovo film di Netflix centra l’obbiettivo o ci troviamo di fronte all’ennesimo, dimenticabile, Action Movie?

Iniziamo dicendo che la risposta a questa domanda è un sì. Bright, scritto da Max Landis (Chronicle, American Ultra, Dirk Gently’s Holistic Detective Agency) e diretto da David Ayer (Harsh Times, End of Watch, Fury, Suicide Squad), colpisce lo spettatore grazie alle atmosfere e alla regia, non senza sbavature ma di buonissimo livello. Al contempo è giusto rispondere anche no, poiché la trama, seppur partendo da un’idea interessante e concedendo sessanta minuti di intrattenimento inframezzato da tematiche forti, nella sua seconda parte inizia a risultare stanca e a tratti stucchevole, soffocata dall’eccessivo ripescare da idee già viste e cliché di genere a cui la pellicola attinge a piene mani.

Bright, infatti, si presenta come un Buddy Movie ambientato in una realtà Urban Fantasy a tratti quasi distopica, sporca, suburbana; realtà che vede Los Angeles  come una metropoli popolata da gang e poliziotti corrotti, dove c’è poco spazio per le buone intenzioni e la vita scorre tra pugnalate alle spalle (reali e metaforiche), sangue e pallottole.

Ayer, che ha vissuto parte della sua giovinezza tra i ghetti della Città degli Angeli, riesce a delineare uno scenario cupo e grottesco, spaventosamente realistico (nonostante la presenza di magia, orchi, fatine ed elfi) e che a tratti colpisce lo spettatore con una forte critica al razzismo (qui perpetrato verso gli orchi, tratteggiati con gli stilemi tipici degli afroamericani), ma che purtroppo si va a perdere col procedere della storia.

Il film si presenta con dei titoli di testa che catapultano subito lo spettatore nel contesto in cui prende vita la vicenda, contesto che viene poi velocemente eviscerato nelle prime fasi grazie a dei dialoghi taglienti e ben congegnati, che si svolgono ritmati in una felice commistione tra crime e noir.

Quando si arriva all’azione vera e propria, insomma, ci troviamo già a nostro agio nel mondo dove vivono il cinico Scott Ward (Will Smith) e il suo partner, unico orco a vestire i panni di poliziotto nel LAPD e personaggio all’apparenza sempliciotto, Nick Jakoby (Joel Edgerton, irriconoscibile ma credibilissimo grazie a un trucco prostetico di alto livello).

La storia da qui in poi abbraccia, come già detto, molti cliché, sia del genere Buddy Movie, sia del Fantasy, mostrandoci i protagonisti in fuga per proteggere la classica “donzella in pericolo” (interpretata in modo lodevole da Lucy Fry) e l’altrettanto classico “oggetto pericoloso se in mani sbagliate”, scadendo purtroppo nell’abuso di essi quando si arriva agli ultimi 40 minuti di film.

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Passando al lato tecnico, come già detto all’inizio, la regia risulta di buon livello, funzionale alla trama e esente dalle incertezze che avevano caratterizzato il lavoro di Ayer in Suicide Squad. Coadiuvata da un buon montaggio e una fotografia sporca e decisamente in tema coi toni della pellicola, assembla un bell’incarto per la storia e tiene alta l’attenzione, mantenendo, inoltre, una chiarezza lodevole anche nelle scene d’azione più concitate.

Menzione speciale per la colonna sonora, composta da brani Rap, Nu Metal, Rock, Metalcore, Pop e Hardcore Punk che si amalgamano con più classici temi strumentali, regalando ulteriore carisma e anima al film (NDE Se ne avete occasione recuperatevi su Spotify l’OST, ne vale la pena).

In definitiva Bright è un film che soffre di una scrittura schizofrenica e un eccessivo attaccamento agli stilemi di genere, ma che sopperisce alle sue mancanze con un’anima inaspettatamente forte e che va premiato per il suo coraggio di rischiare. In totale sincerità se fosse uscito nelle sale non sarebbe valso il prezzo del biglietto, ma avendolo su Netflix merita una visione, se si riesce a soprassedere alla caduta stilistica della seconda parte si può godere di un prodotto che intrattiene, fa sorridere e a tratti emoziona, perfetto per un pomeriggio di noia o una serata con birra, pizza e qualche amico.

 

PS. Confermato, dopo anni di domande e incertezze: agli orchi piace il Death metal

 

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